Vita e morte nella politica di Luca Coscioni

La battaglia di Luca

In un Italia (e in un’ Europa), che si domanda angosciosamente quale identità (e in che modo) possa difenderla dalle minacce interne ed esterne alla sua sicurezza e ai suoi costumi di vita, Luca Coscioni è stato protagonista di una battaglia di “verità”, che molto ha a che fare con la questione dell’identità politica dell’Occidente. Non è affatto esagerato sostenere che gli interrogativi che pesano più drammaticamente sul mondo libero sono tutti, in modo diverso, relativi alle forme con cui lo Stato e le istituzioni che esercitano il potere devono rispondere alle minacce portate al corpo fisico delle persone, come soggetto e come oggetto fondamentale della politica. Da questo, da questa centralità del corpo – resa ancora più stringente dalle straordinarie possibilità che la tecnologia oggi offre di ferire, distruggere o manipolare i corpi, ovvero di difenderli e di curarli- discende la centralità della bioetica e delle politiche di sicurezza come questioni dirimenti del discorso pubblico.

Questa centralità del corpo è confermata nel dibattito culturale: a che cosa pensa oggi, chi vuole pensare “politicamente” il nostro mondo, se non ai temi, da una parte, della genetica e della scienza della vita e, dall’altra, del terrorismo e della scienza della morte? Questo non significa ovviamente che prima non esistessero le guerre, il terrorismo, gli eserciti, le malattie e le cure… Significa però che né la guerra né la malattia venivano intesi e imposti in questo modo, avendo come terreno di scontro o bersaglio la stessa identità politica dell’Occidente ed i suoi fondamenti. Se ci poniamo politicamente la domanda “chi siamo?”- ed ormai sono le cose ad imporcela quotidianamente- la risposta ha a che fare con Bin Laden, l’11 settembre, le chiese bruciate nel mondo musulmano, Theo Van Gogh, l’etsi deus daretur, ma anche con le cellule staminali, il genoma, gli ogm…: e con Luca Coscioni. Su questo punto almeno, ha ragione Giuliano Ferrara. Il resto (il condono edilizio, il contratto dei metalmeccanici, l’ennesimo avviso di garanzia a Berlusconi…) non è irrilevante, ma assai meno importante di Bin Laden e del referendum sulla fecondazione assistita. Il resto non è centrale. Non interroga, tutti, con una radicalità da esigere una risposta. E le risposte- tanto a Bin Laden quanto alla clonazione terapeutica- sono spesso le stesse risposte, con lo stesso segno, la stessa logica, la stessa disperata, generosa, affannata necessità di fissare gli stessi “punti fermi”, che però non sono affatto fermi, perché eravamo stati “noi” – non i nostri nemici – a metterli in discussione.

Perché Coscioni ha posto dunque una questione di “verità”? Perché ha messo politicamente in crisi il modello di risposta, l’illusione di difendersi dal pericolo ricorrendo ad una razionalità ideologica, ad una falsa coscienza, che chiama “razionale” ciò che meglio esorcizza la paura. Come si reagisce a Bin Laden? Riscoprendosi “cristiani”, anche se in quel modo, cristiani non lo siamo più, né possiamo esserlo. Come si combatte il “rischio -Frankestein” della manipolazione genetica? Resistendo alla sirena del progresso e al “capriccio” della speranza; vivendo, morendo e curandosi come si è sempre fatto, e accentando la “naturalità” del nostro destino, anche se da questa idea naturale e “impolitica” della vita e della morte ci siamo a tal punto affrancati e liberati da considerarla insopportabilmente blasfema. Di fronte al pericolo che l’evoluzione scientifica, prima di potere curare i malati produca tonnellate di pecore Dolly umane concepite da qualche pazzo, Coscioni ha detto che è più ragionevole e amorevole (per gli uomini e per l’umanità) correre il rischio della libertà. Ha imposto la contraddizione maieutica fra l’esigenza di essere quello che siamo e vogliamo essere (un mondo di uomini che vivono liberamente e che fanno a proprio rischio le scelte essenziali della vita) e l’illusione di tornare a essere quello che eravamo, quando non avevamo “questi problemi”, come se “questi problemi” dipendessero da un nostro incompreso tradimento.

Coscioni ha incarnato questa contraddizione e l’ha fatta camminare nel corpo della politica. La radicalità dell’alternativa posta da Coscioni è semplice: o la modernità accetta, con tutti i rischi del caso, di rimanere, anche di fronte al pericolo, il “campo della libertà” in cui ciascuno, per come può e sa, gioca la sua “partita con la verità”, oppure la nostra identità politica viene totalmente meno- e non saremmo più difesi, ma ancora più indeboliti da questa rinuncia: non saremo mai più forti rinunciando a sapere e ad usare rischiosamente del nostro sapere e della nostra libertà. Libertà e scienza sono l’unico modo occidentale per affrontare “politicamente” i problemi della vita e della morte. Non si può essere liberi senza sapere e senza mettere alla prova quello che sappiamo. E viceversa, non si può sapere davvero alcunché senza essere liberi di sperimentarne gli effetti e i pericoli. Il primato della libertà e quello della scienza (e il loro inestricabile legame) sono il fondamento dell’identità politica dell’Occidente. Il divorzio fra libertà e sapere non sarebbe solo la distruzione di quello che siamo, ma muterebbe i connotati essenziali della scienza e la sua stessa pericolosità. Da questo punto di vista, non ha solo ragione chi sostiene che, sul piano spirituale, il destino dell’Occidente è inscritto nell’evoluzione della scienza: ha ragione anche chi teme che il destino della scienza sia legato al destino dell’Occidente, e che tutt’altra sarebbe (e già è) una scienza totalmente sganciata dall’idea occidentale di libertà. Forse anche da questa radicalità “profetica” deriva l’impressione e lo sgomento che le parole di Coscioni e la sua morte hanno suscitato nella politica e nell’opinione pubblica italiana, che ha avuto modo di conoscerlo e di comprenderlo.

23 febbraio 2006 – Carmelo Palma

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