Care compagne, cari compagni

Care compagne, cari compagni, l’altro ieri, ho ricevuto un messaggio di posta elettronica, nel quale una laureanda mi chiedeva di darle delle indicazioni, per una tesi sulla globalizzazione. Lunedì le risponderò, invitandola a riascoltare le quattro giornate del Consiglio generale del Partito radicale transnazionale, ed il Convegno, organizzato da Radicali Italiani, lo scorso 18 luglio: Globalizzazione? Sì, grazie. Si tratta infatti di due documenti audio e video di grande importanza, di straordinaria importanza, che ci consentono di comprendere, e di far comprendere, le ragioni di un sì convinto alla globalizzazione dei diritti, di tutti i diritti. Il Partito radicale transnazionale, partito della democrazia liberale nel mondo, è partito della globalizzazione della democrazia, dell’economia, dei diritti umani, delle libertà individuali. Concordiamo con Emma: Il vero problema del mondo oggi non è che esista troppa globalizzazione, ma che al contrario ce ne sia troppo poca, e che non esista affatto quando a dover essere globalizzati sono la democrazia e i diritti umani. In questa frase, possiamo rintracciare le motivazioni profonde, e gli obiettivi, del partito radicale transnazionale, e anche di Radicali Italiani. Se la globalizzazione avesse raggiunto i paesi sottosviluppati, se fossero state attuate adeguate politiche demografiche, tali paesi sarebbero in via di sviluppo, e non condannati alla sete, alla fame, alle malattie, alle guerre. Secondo alcuni, il popolo dei no global è mosso da una sana passione per un impegno sociale, volto a restituire dignità e diritti, ai tre quarti della popolazione mondiale. Lo strumento scelto è quello di una opposizione sistematica alla globalizzazione, spesso ricorrendo alla violenza, alla violenza di alcuni pacifisti, lupi travestiti da pecore. Se definiamo la globalizzazione, l’espansione dei mercati, della democrazia e dei diritti, allora essa ha interessato solo in minima parte i paesi sottosviluppati. Dove questa ha avuto luogo, tali paesi hanno cominciato a svilupparsi. Il bersaglio dei no global, la globalizzazione, è in definitiva in realtà il mercato. Tuttavia, dall’inconscio degli antiglobalizzatori, riemerge, a tratti, il mostro alla cui tavola si siedono quotidianamente, per banchettare: il mercato, croce, quando sono consci; delizia, per il loro consumo inconscio, che diviene consumismo, degli altri chiaramente, con il ritorno di uno stato di coscienza, di una cattiva coscienza. Da un lato poi, il liberismo viene definito selvaggio, come se ne esistesse uno civile, che ci viene sistematicamente e volontariamente negato da poteri oscuri, senza tenere conto che sono proprio le regole di una democrazia, le leggi della domanda e dell’offerta, e il diritto alla proprietà privata, che ci assicurano le libertà individuali, non solo economiche, di cui godiamo, ogni giorno della nostra vita. Dall’altro lato, chi si professa liberale, parla di economia sociale di mercato, per evitare il ricorso al termine scomodo di liberismo economico, come se il mercato non fosse di per se costituito da individui, e per questo già sociale. Il fallimento delle economie pianificate, cioè del tipo di sistema economico teorizzato da Karl Marx, da un lato, e delle pratiche keynesiane di deficit spending, dall’altro, ha messo in luce in modo inequivocabile che la via del mercato è la strada maestra per ridurre progressivamente povertà e sofferenza, che affliggono il 75 per cento dell’umanità. Qualora, nello scontro tra libertà e democrazia, da una parte, e comunismo, dall’altra, avesse prevalso quest’ultimo, povertà, miseria, integralismi e totalitarismi, riguarderebbero i 6 miliardi di donne ed uomini, che abitano il nostro pianeta. Occorre dirlo con chiarezza, fuori dai denti, al popolo dei no global, ai Verdi, ai Comunisti italiani di Cossutta, ai comunisti rifondatori di Bertinotti, a Santoro, a Biagi: l’alternativa al mercato è una, ed è stata già ampiamente sperimentata. Le economie pianificate dei regimi nazi-comunisti. L’alternativa agli Stati Uniti è la Cina. L’alternativa alla Gran Bretagna è l’insieme di angoli ed angoletti rossi, sparsi qua e là. Il problema non è ridistribuire l’80 per cento di ricchezza mondiale, prodotta dal 20 per cento delle persone, che vivono nei Paesi sviluppati. Il problema è di aumentare la ricchezza, prodotta dall’80 per cento delle persone, che non vivono, ma tutt’al più, sopravvivono, nella maggior parte dei casi, muoiono, nei Paesi sotto sviluppati. Ciò sarà possibile solo con la globalizzazione della democrazia, e dell’economia. In Cina, questo non accade, lo sappiamo. E così la Cina è, a tutti gli effetti, un Paese sotto sviluppato. Un regime totalitario comunista, che opprime ferocemente 1 miliardo e 200 milioni di individui, più di un sesto della popolazione mondiale. Secondo la teoria del salario di Karl Marx, nel capitalismo, il salario non può superare il mero livello di sussistenza: il plusvalore prodotto dal lavoratore viene infatti percepito dal capitalista sotto forma di profitto. Tuttavia, questo approccio è stato smentito dagli eventi, cioè dalla verifica empirica. Una teoria più recente, quella della produttività marginale, riguarda invece l’influenza esercitata dall’offerta e domanda di lavoro. I sostenitori di questa teoria, sviluppata dall’economista americano Clark, affermano che i salari tendono a posizionarsi al livello in cui i datori di lavoro trovano economico assumere l’ultimo lavoratore in cerca di occupazione, definito il lavoratore marginale. In definitiva, secondo la teoria della produttività marginale, il salario del lavoratore è pari al contributo dato dallo stesso al processo produttivo. Evidentemente, questa teoria può essere estesa anche agli impiegati e, in definitiva, a tutte le altre forme di lavoro, per lo meno dipendente. Dopo 135 anni dalla pubblicazione del Primo Libro del Capitale, dopo il fallimento, a livello planetario, del Comunismo, Bertinotti, Cossutta, il popolo dei no global, Santoro, sembrano essere ancora convinti della teoria dello sfruttamento di Marx. Tuttavia, ben consapevoli, che lo scontro sociale, che tale teoria potrebbe nuovamente innescare, non può essere riproposto all’interno dei Paesi sviluppati, perché esso non ha ragion d’essere, il bersaglio prescelto è la globalizzazione, cioè il mercato globale, ma pur sempre il mercato. In altre parole, la teoria dello sfruttamento, che è risultata del tutto infondata per i Paesi sviluppati, viene ideologicamente impiegata per demonizzare la globalizzazione, l’espansione dei mercati, della democrazia e dei diritti. Per questi campioni di libertà, la ricchezza dei Paesi avanzati non è il risultato della rivoluzione industriale, della organizzazione del lavoro, delle tecnologie, dell’informatica, ma sarebbe il frutto di un sistematico sfruttamento e di una deliberata rapina, dei Paesi ricchi ai danni di quelli poveri, cosa questa, che se corrispondesse alla realtà dei fatti, giustificherebbe non tanto politiche di redistribuzione della ricchezza, quanto piuttosto un deciso intervento della Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma, le cose non stanno così. I dati statistici parlano chiaro, e appaiono difficilmente controvertibili. Come già detto, il 20 per cento della popolazione mondiale produce l’80 per cento della ricchezza mondiale. Questi dati si commentano da soli. Una carenza di globalizzazione, un deficit di mercato, sono le cause principali della miseria e del sottosviluppo. Certo, il mercato non realizzerà il Paradiso in Terra, ma può, quanto meno, raffreddare la temperatura dell’Inferno, nel quale sono calati alcuni miliardi di persone. Siamo anche consapevoli che la povertà cronica può comportare situazioni di scambio ineguale, ma non è evidentemente la chiusura dei mercati, la soluzione al problema. Le politiche protezionistiche, le misure antiglobalizzazione, come quelle fatte attuare dai protezionisti del settore agro-alimentare dell’Unione europea, a danno dei Paesi e dei prodotti africani, mostrano chiaramente l’ampliamento del divario fra il Nord e il Sud del Mondo. Ma, l’avversione al mercato dei clericofascisti, e dei cattocomunisti, fa ormai parte del codice genetico, o meglio della memoria collettiva, di chi non si è certo formato nella dura, durissima, palestra della libertà e del rispetto delle regole democratiche. Così, la banda dei: siamo tutti liberali, rispetto a tutte le nostre 25 proposte di legge di iniziativa popolare e, in particolare, di fronte alle 4 del pacchetto economia, è finalmente costretto a gettare la maschera liberale, e a mostrare, ora, il volto di Karl Marx, di Stalin e di Jiang Zemin, ora quello di Benito Mussolini e Adolf Hitler, ora quello di Pio XII e di Camillo Ruini, una galleria degli orrori, e degli errori, passati e presenti, che ci  ricorda il ruolo fondamentale della memoria passata, presente e futura, e dell’eterno ritorno della storia. Torniamo però al nostro pacchetto economia. La proposta di legge di iniziativa popolare per l’abolizione del sostituto d’imposta è invisa ai burocrati del centrosinistra e del centrodestra perché essa introduce un principio di libertà, e di responsabilità, che è sconosciuto a chi vorrebbe concertare anche la durata media di un rapporto sessuale. In ogni caso, le proposte di legge, che fanno andare letteralmente fuori di testa, i chimerici difensori dei deboli, dei più deboli, sono due: quella sulla abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e per la delega al Governo per l’istituzione del sussidio di disoccupazione e per l’integrazione dei sistemi di protezione sociale e promozione del lavoro; e quella recante norme in materia di provvedimenti urgenti per il riordino del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, l’innalzamento dell’età minima per la pensione e il miglioramento delle pensioni minime. Qui, i convinti, ed immarcescibili, credenti ma non praticanti, la teoria dei salari di Marx, i Cofferati per intenderci, tornano indietro nel tempo di 135 anni, nel 1867, quando appunto fu pubblicato il Primo Libro del Capitale, e i Sindacati avevano una ragion d’essere. Cofferati per primo sembra non essersi accorto che siamo nel 2002 e che molte cose sono decisamente cambiate, e indiscutibilmente in meglio. Una per tutte: non esiste più una classe operaia, crocifissa ad un salario di sussistenza, da difendere. Le sole cose che i Sindacati oggi tutelano, sono posizioni di privilegio. Penso, ad esempio, a chi va in pensione alla veneranda età di 53 anni. Questo vecchietto, manifestamente usurato da un lavoro quasi certamente non usurante, percepisce una buona pensione di giovinezza, lavora al nero, ed è felice e contento, quasi come una Pasqua. Nel contempo, ad essere furiosamente incazzate sono invece almeno altre due persone. Un disoccupato di 20 anni che non riesce a trovare lavoro. Un commerciante, o un artigiano, di 68 anni, i cui contributi servono a pagare la pensione del cinquatreenne tutt’altro che usurato; commerciante o artigiano che, se vuole mangiare, e non restare ancorato al livello di sussistenza, deve ancora continuare a lavorare. Se il giovane disoccupato e l’anziano artigiano, o commerciante, sono due furie, una terza persona, con una età compresa tra i 18 e i 65 anni, con il riconoscimento di un’invalidità dal 74 % al 100 %, è invece senza parole. Percepisce infatti un assegno mensile di assistenza di 218 euro. Dopo il sessantacinquesimo anno di età, l’assegno viene trasformato in pensione sociale. Il beneficiario di questa provvidenza economica non è condannato alla sussistenza, magari fosse questo il caso! E’ condannato all’indigenza, alla miseria, all’elemosina. Queste sono le meraviglie dello Stato sociale italiano. Sic stantibus rebus, mi permetto però di chiedere a Lorenzo Milano, di sospendere l’interruzione dei farmaci che sono necessari per la sua sopravvivenza, e gli propongo di combattere questa battaglia con Radicali Italiani. La vita, insieme alla libertà, è il bene più prezioso, e ritengo che l’azione non violenta di Lorenzo possa, e debba essere conclusa, dal momento che ha trovato, in Radicali Italiani, un interlocutore politico, che proprio dell’innalzamento delle pensioni minime, ha fatto uno degli argomenti portanti del pacchetto economia. Pacchetto, che si chiude, come è noto, con la proposta di legge di iniziativa popolare per la apertura del Servizio Sanitario Nazionale alla concorrenza tra pubblico e privato nel finanziamento e nella produzione dei servizi ai cittadini. La concorrenza tra pubblico e privato appare condizione necessaria, ma non sufficiente per il funzionamento di una Sanità da Terzo Millennio. La condizione sufficiente è che il principio di responsabilità sia assolto. Purtroppo, la sedimentazione delle strutture burocratiche, partitocratriche e clientelari pubbliche, rende di fatto impossibile una erogazione di servizi, anche sanitari, capaci di soddisfare la domanda degli utenti. In questi giorni, sto ricevendo molti messaggi di posta elettronica, a sostegno della mia candidatura a membro del Comitato nazionale per la bioetica. Altri messaggi sono di solidarietà, parola questa rispetto alla quale è bene quanto meno essere diffidenti. Questa parola è in effetti una attenuazione della parola amore. Sotto l’aspetto strettamente economico, ma a ben guardare anche più in generale per le altre libertà individuali, la solidarietà è una deroga, spesso un surrogato, al godimento di diritti costituzionalmente garantiti. Inoltre, essa non lascia spazio alla responsabilità individuale, e alla scelta dell’individuo, che dovrebbero essere invece centrali in una società libera. Nel nostro Paese, il concetto di solidarietà viene utilizzato strumentalmente per cercare di mascherare gli esiti disastrosi, di uno Stato sociale selvaggio. Altro che capitalismo selvaggio! Un assegno mensile di assistenza di 218 euro non è certamente la conseguenza di una imperfezione del mercato. Piuttosto, si dovrebbe parlare del  risultato di una cultura, e prassi, clientelare e profondamente razzista, che considera le persone con disabilità, non degne di vivere una vita, che possa essere chiamata tale. Certo non lo è, la vita di chi riceve l’elemosina vergognosamente corrisposta da uno Stato come l’Italia. Mettendo da parte il tema degli emolumenti, che resta comunque centrale, in Gran Bretagna, il principio di responsabilità, e di libertà, fa sì che anche le persone disabili gravissime, tanto per fare un esempio, persone che in Italia sono confinate in famiglia, o peggio ancora recluse in Istituti, possano scegliere di vivere autonomamente, in appartamenti loro destinati, e con una adeguata assistenza personale, completamente assente qui dalle nostre parti. E’ notizia di questi giorni, riportata dal quotidiano Le Monde, quella che riguarda una cittadina inglese: Daine Pritty. La signora Pritty, malata di sclerosi laterale amiotrofica in fase terminale, ha chiesto che la legge inglese autorizzi il marito a procedere, nel momento in cui lei stessa lo richiederà, alla sua eutanasia, senza dover poi essere incriminato. A tale scopo, la signora Pritty ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, invocando, in particolare: l’articolo 3 della Carta europea dei diritti dell’uomo, che vieta la sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, quali sono quelli che la signora deve subire per restare in vita e, che lei vorrebbe risparmiarsi, decidendo quando e come morire; l’articolo 2, che garantisce il diritto alla vita, che comporta anche il diritto di decidere se vivere; l’articolo 9, che garantisce, assieme alla libertà di pensiero e di religione, la libertà di coscienza, libertà che non verrebbe rispettata dal rifiuto di predisporre una legge autorizzante il suicidio assistito; e infine, l’articolo 14, comportante il divieto di discriminazioni nel godimento dei diritti e libertà garantiti dalla Carta europea dei diritti dell’uomo, mentre in questo caso sarebbe ravvisabile una discriminazione fra persone sane, che possono decidere di togliersi la vita, e persone invalide in quanto malate, che non possono farlo. Il Caso della signora Pritty non è ancora arrivato in Italia, e penso che sia nostro compito di farcelo giungere, non fosse altro per riaprire il dibattito sul suicidio assistito, e per provocare il prevedibile anatema di Giovanni Paolo Secondo, e della classe politica italiana, cioè vaticana, sempre più talebana, Girolamo Sirchia in testa, quando si tratta di affrontare temi che riguardano la coscienza individuale, e i diritti, di tutti i cittadini italiani.

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